Tavaroli, l'affair Telecom e le Relazioni Pubbliche
Toni Muzi Falconi rilegge alla luce delle Relazioni Pubbliche, commenta e invita a leggere le dichiarazioni rilasciate da Giuliano Tavaroli al giornalista di Repubblica Giuseppe D’Avanzo sul caso Telecom. “Una lezione da cui, come relatori pubblici, abbiamo molto da imparare”.
24/07/2008, Notizie Ferpi, Commenti
Nei giorni scorsi si è almeno in questa prima fase, conclusa l’inchiesta sui dossier riservati attribuiti a Telecom Italia (gestione Tronchetti Provera) con il rinvio a giudizio di una trentina di persone e con il non rinvio a giudizio di Marco Tronchetti Provera e di Carlo Buora. Principale imputato è Giuliano Tavaroli, all’epoca a capo del servizio sicurezza di Pirelli e consulente diretto del presidente di Telecom (sempre Tronchetti).
Della vicenda ne avevamo già scritto all’epoca della consegna agli arresti domiciliari di un giornalista (Guglielmo Sasinini, già vice direttore di Famiglia Cristiana) che, cambiando casacca, aveva lavorato per Tavaroli per contribuire a raccogliere informazioni. Dicevamo allora che la raccolta di informazioni sugli stakeholder per una qualsiasi organizzazione rientrava storicamente fra i compiti solitamente affidati alle relazioni pubbliche, nel loro ruolo di ‘boundary spanning’ o, se preferiamo, di ascolto per mettere l’organizzazione in condizioni di sapere, di prevedere, di intuire e di orientare i suoi comportamenti. Dicevamo che anche questa funzione, specializzatasi all’inverosimile anche grazie alla globalizzazione dell’economia e ai progressi delle tecnologia informatiche, rischiava di costituire un ulteriore passo verso la disintermediazione del nostro ruolo.
Il quotidiano La Repubblica e in particolare Giuseppe D’Avanzo, fra le penne più influenti e reputate di quel quotidiano, ha pubblicato nei giorni scorsi, in due puntate successive I e II, l’esito di alcuni colloqui recenti avuti con Tavaroli. L’ex capo della sicurezza di Pirelli/Telecom vuota il sacco (naturalmente è imputato e, come lui stesso afferma, non ha nulla da perdere…quindi le sue dichiarazioni vanno prese con infinite molle..compresa quella, solennemente smentita poche ore dopo la pubblicazione, che vorrebbe coinvolgere Piero Fassino, finito da diverso tempo sotto il ciclone di malelingue che non ne sopportano la serietà e l’incorrutibilità). Soprattutto, getta una luce finalmente comprensibile sulla rete di raccolta di conoscenze che l’azienda, che dovrà rispondere oggettivamente in Tribunale in base alla legge 231 sulla responsabilità oggettiva, aveva all’epoca steso in tutto il mondo al fine di anticipare e neutralizzare quella che lo stesso Tavaroli definisce ‘una azione per screditare la reputazione di Tronchetti Provera’. Questi due articoli rappresentano per noi relatori pubblici una lettura assai istruttiva, ed è solo per questa ragione che vi invitiamo a leggerla con attenzione.
Se anche ogni informazione che Tavaroli ci fornisce fosse falsa (ed è una ipotesi solo parzialmente verosimile) è il linguaggio manageriale usato da Tavaroli, un linguaggio che assomiglia molto a quello che usiamo anche noi, che ci deve indurre ad una meditata riflessione sui confini civili, etici e giuridici della nostra professione.
Ma che c’entriamo noi con le spie? Dirà qualcuno che legge. C’entriamo, c’entriamo.
E’ sufficiente leggere la descrizione che lo stesso D’Avanzo fornisce del lavoro delle spie per capire che ci siamo dentro anche noi. E’ sufficiente scorrere gli elenchi infiniti delle persone citate da Tavaroli, indagate dai suoi dossier e coinvolte nella indagine per capire quanto sono frequenti i nomi dei nostri colleghi, o di persone che in una o nell’altra fase della loro carriera hanno fatto il nostro mestiere. Di certo non ci sono barbieri, ma neppure pubblicitari, e neppure responsabili del personale o commercialisti, o notai. Molti politici e brasseurs d’affaires, guarda caso quasi tutti ex relatori pubblici…
Ora che, come dice Tavaroli, le imprese hanno assunto il pieno controllo del governo della sicurezza in partnership con i servizi di alcuni governi, e che per avere informazioni sensibili che possano aiutarle ad assumere comportamenti e decisioni a basso rischio reputazione, le imprese investono risorse assai ingenti…il ruolo del relatore pubblico cambia anche quello. Se siamo responsabili non solo della csr, dei rapporti con i media, degli eventi e della comunicazione interna, ma anche dei rapporti con le istituzioni e dell’ascolto degli stakeholder, come emergerà chiaramente anche da quanto si dirà al congresso Euprera di ottobre a Milano sul processo di istituzionalizzazione della funzione, ne conseguono perlomeno alcune specifiche responsabilità.
Le relazioni pubbliche sono tecniche neutrali, come qualsiasi altra. Non vanno usate mai per screditare o mettere in cattiva luce un avversario, un concorrente, un nemico. Questo comportamento ha un nome molto preciso: black pr. E allora si operi per vietare, anche per legge, questo tipo di attività che fa parte non saltuaria della nostra ‘cassetta degli attrezzi’, e soprattutto si operi per diffondere fra i professionisti e soprattutto i giovani che questa pratiche sono deleterie per il futuro stesso della professione che fanno o ambiscono a intraprendere.
Le leggi vanno sempre e comunque rispettate (è fatta salva la facoltà di operare una trasparente attività di lobby per modificarle, ma finché esistono vanno rispettate). Quindi i relatori pubblici, che siano consulenti o interni alle organizzazioni, vigilino attentamente affinché questo avvenga e, quando hanno anche un dubbio, non lo tengano per sé come quasi sempre fanno, ma lo esplicitino. Questo non è, come forse potrebbe sembrare, un invito moralistico a fare il ‘whistle blower’, ma una misura certamente efficace per cercare di prevenire il crollo reputazionale della organizzazione per la quale o con la quale lavoriamo.
Il mercato cresce e non moriamo di fame. Quindi i relatori pubblici, magari senza necessariamente sbandierarlo ai quattro venti, sappiano dire di no, sappiano cambiare organizzazione, sappiano tirare su la schiena troppo sovente protesa all’inchino. Io so di molti colleghi che questo lo hanno saputo fare e che oggi hanno eccellenti e invidiabili posizioni. So invece di altri che non l’hanno voluto o saputo fare e che oggi fanno fatica ad alzarsi dal tappeto in cui si sono cacciati.
So benissimo che la Telecom di oggi non ha nulla o poco a che vedere con quella di quegli anni e stimo molte delle persone e dei colleghi che vi lavorano. So benissimo che la Telecom di quegli anni è solo la punta di un iceberg e che tante sono le imprese che operano nelle condizioni descritte da Tavaroli.
Ma se non usiamo l’esperienza vissuta per cambiare in meglio (sempre nel senso di essere più efficaci, di contribuire ad aumentare la licenza di operare dei nostri clienti/datori di lavoro) cos’altro possiamo fare?
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