dal magazine FerpiNotizie di maggio 2010 il mio ultimo articolo...
Circa un anno fa, proprio all'inizio della primavera, andai a trovare un nuovo cliente: media azienda a gestione familiare, molto radicata sul territorio, ottimi margini, un mercato interregionale con un marchio forte e più di un secolo di storia alle spalle.
Studiammo una piano di comunicazione annuale che avrebbe dovuto sviluppare e rafforzare le relazioni con dipendenti, media, consumatori, distributori, potenziali clienti e istituzioni. Quindi un piano piuttosto importante che prevedeva ovviamente diversi mezzi e diversi risultati a seconda dei diversi pubblici.
I nostri committenti erano il Padre-padrone (già piuttosto anziano) e il Figlio-futuroamministratore dell'azienda (oggi ancora relegato a una funzione esecutiva). Quasi tutto il piano fu accettato immediatamente – pur con il solito tentativo di forte riduzione di budget – finché non arrivammo al puntum dolens: il web 2.0.
Rimase il focus di due riunioni-fiume. La cosa che mi stupì enormemente fu da un lato la curiosità e la tentazione che il Padre-padrone aveva nel trattare questo argomento a lui praticamente sconosciuto, dall'altro il completo disinteresse e la noncuranza con cui il figlio – pur essendo un utilizzatore di social network e altri strumenti 2.0 – liquidò la faccenda.
Alla fine la proposta 2.0 fu bocciata perché il rischio era di creare una community dei distributori, che avrebbe sì facilitato la comunicazione, l'organizzazione di eventi, le relazioni, ma che avrebbe potuto “sindalicazzarsi” e farli conoscere reciprocamente. Conoscendosi tra loro i distributori avrebbero così potuto rilevare i comportamenti e i trattamenti differenziati della casa madre.
Dato che il progetto 2.0 era molto bello e mi stimolava cercai di argomentare fino alla fine, ma alla domanda perché devo rischiare una crisi, oggettivamente non seppi rispondere.
Ero stato messo in buca da un signore anziano che non aveva mai usato facebòk, che non utilizzava uno smartphone e che usava gògghél per trovare i clienti.
In realtà aveva capito fin da subito quale fosse uno dei principali aspetti del mondo 2.0, completamente informatizzato, interattivo e simultaneo: la Trasparenza.
In effetti l'unica obiezione che gli feci (in quegli imbarazzanti duelli cliente-consulente, che quasi sempre si risolvono ) fu: “Ma in effetti si presume che i comportamenti aziendali siano corretti nei confronti dei propri distributori... e che forse sia meglio gestire il gruppo invece di subirne una sua costituzione autonoma”
Gli stakeholder 2.0 non possono essere turlupinati. Il Mondo 2.0 esige trasparenza e comportamenti corretti perché due fattori si intersecano tra loro:
è un mondo completamente ricoperto da infrastrutture tecnologiche – internet, satellite, telecamere a circuito chiuso, videotelefonini (che potenzialmente scattano foto, riprendono video registrano audio);
è un mondo consapevole della potenza dell'informazione in un sistema media che obbedisce in particolare a logiche di audience, quindi avide di scandali e bad news in generale.
In questo senso le black PR degli ultimi anni, gestite da agenzie a cavallo tra il paparazzo e il press agent, e le campagne scandalistiche dei media hanno aperto uno squarcio profondo tra classe politica, parte dell'imprenditoria e i loro pubblici. Spesso evidenziando quanto mancasse una consapevolezza comunicativa di fondo, che è compito delle Relazioni Pubbliche.
Se, come anche indicato negli Stockholm Accords, nel ruolo del professionista di RP è ormai riconosciuta una funzione formativa del management e se a noi tocca tentare di governare le relazioni con gli stakeholder tramite un ascolto preventivo, allora i nostri committenti (siano essi clienti dell'agenzia o il gruppo dirigente dell'azienda per cui lavoriamo) devono sapere che il comportamento scorretto non si tiene più nascosto e dobbiamo avvertirli che sempre meno potrà esser tenuto nascosto.
Trasparenza, tecnologia, stakeholder vanno a braccetto e non sono spettri che si aggirano per l'Europa. Sono ben reali e sono il qui ed ora di gran parte del nostro lavoro.
Circa un anno fa, proprio all'inizio della primavera, andai a trovare un nuovo cliente: media azienda a gestione familiare, molto radicata sul territorio, ottimi margini, un mercato interregionale con un marchio forte e più di un secolo di storia alle spalle.
Studiammo una piano di comunicazione annuale che avrebbe dovuto sviluppare e rafforzare le relazioni con dipendenti, media, consumatori, distributori, potenziali clienti e istituzioni. Quindi un piano piuttosto importante che prevedeva ovviamente diversi mezzi e diversi risultati a seconda dei diversi pubblici.
I nostri committenti erano il Padre-padrone (già piuttosto anziano) e il Figlio-futuroamministratore dell'azienda (oggi ancora relegato a una funzione esecutiva). Quasi tutto il piano fu accettato immediatamente – pur con il solito tentativo di forte riduzione di budget – finché non arrivammo al puntum dolens: il web 2.0.
Rimase il focus di due riunioni-fiume. La cosa che mi stupì enormemente fu da un lato la curiosità e la tentazione che il Padre-padrone aveva nel trattare questo argomento a lui praticamente sconosciuto, dall'altro il completo disinteresse e la noncuranza con cui il figlio – pur essendo un utilizzatore di social network e altri strumenti 2.0 – liquidò la faccenda.
Alla fine la proposta 2.0 fu bocciata perché il rischio era di creare una community dei distributori, che avrebbe sì facilitato la comunicazione, l'organizzazione di eventi, le relazioni, ma che avrebbe potuto “sindalicazzarsi” e farli conoscere reciprocamente. Conoscendosi tra loro i distributori avrebbero così potuto rilevare i comportamenti e i trattamenti differenziati della casa madre.
Dato che il progetto 2.0 era molto bello e mi stimolava cercai di argomentare fino alla fine, ma alla domanda perché devo rischiare una crisi, oggettivamente non seppi rispondere.
Ero stato messo in buca da un signore anziano che non aveva mai usato facebòk, che non utilizzava uno smartphone e che usava gògghél per trovare i clienti.
In realtà aveva capito fin da subito quale fosse uno dei principali aspetti del mondo 2.0, completamente informatizzato, interattivo e simultaneo: la Trasparenza.
In effetti l'unica obiezione che gli feci (in quegli imbarazzanti duelli cliente-consulente, che quasi sempre si risolvono ) fu: “Ma in effetti si presume che i comportamenti aziendali siano corretti nei confronti dei propri distributori... e che forse sia meglio gestire il gruppo invece di subirne una sua costituzione autonoma”
Gli stakeholder 2.0 non possono essere turlupinati. Il Mondo 2.0 esige trasparenza e comportamenti corretti perché due fattori si intersecano tra loro:
è un mondo completamente ricoperto da infrastrutture tecnologiche – internet, satellite, telecamere a circuito chiuso, videotelefonini (che potenzialmente scattano foto, riprendono video registrano audio);
è un mondo consapevole della potenza dell'informazione in un sistema media che obbedisce in particolare a logiche di audience, quindi avide di scandali e bad news in generale.
In questo senso le black PR degli ultimi anni, gestite da agenzie a cavallo tra il paparazzo e il press agent, e le campagne scandalistiche dei media hanno aperto uno squarcio profondo tra classe politica, parte dell'imprenditoria e i loro pubblici. Spesso evidenziando quanto mancasse una consapevolezza comunicativa di fondo, che è compito delle Relazioni Pubbliche.
Se, come anche indicato negli Stockholm Accords, nel ruolo del professionista di RP è ormai riconosciuta una funzione formativa del management e se a noi tocca tentare di governare le relazioni con gli stakeholder tramite un ascolto preventivo, allora i nostri committenti (siano essi clienti dell'agenzia o il gruppo dirigente dell'azienda per cui lavoriamo) devono sapere che il comportamento scorretto non si tiene più nascosto e dobbiamo avvertirli che sempre meno potrà esser tenuto nascosto.
Trasparenza, tecnologia, stakeholder vanno a braccetto e non sono spettri che si aggirano per l'Europa. Sono ben reali e sono il qui ed ora di gran parte del nostro lavoro.
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