giovedì 8 maggio 2008

Siamo uomini o focus group?

Sul sito ferpi.it si apre una bella riflessione a più voci sul ruolo della ricerca sociale (quali-quantitativa), sul suo rapporto con il mondo della comunicazione, sui sondaggi.
Questa settimana c'è un bell'intervento di Toni Muzi in apertura e un commento di Pagnoncelli (IPSOS) in risposta al pezzo della settimana scorsa di Bistoncini.

Si tratta di un tema assolutamente centrale nel nostro lavoro.

Le identità fluide dei pubblici, la necessità di maggiori ricerche incentrate sull'analisi qualitativa, le difficoltà nell'intervistare campioni significativi, i fallimenti dei recenti sondaggi elettorali, il diluvio informativo di sondaggi e ricerche di mercato più o meno affidabili.

Tutti temi che dobbiamo conoscere per evitare di fallire nella fase ascolto/analisi dei nostri stakeholder.

Recentemente mi sono iscritto a un paio di newsletter e siti di marketing/social research molto interessanti (Aberdeen Group & Sherpa Marketing). Dopo le prime settimane in cui leggevo con interesse almeno gli abstract delle ricerche ho dovuto alzare bandiera bianca davanti a una marea di ricerche e controricerche, che dilagavano e diventavano anche contrastanti l'una con l'altra. Adesso quando ho tempo leggo i titoli e poi vedo.... a parte questa parentesi personale (suggerisco comunque a chi ha voglia e necessità di visitarsi i due siti) il tema è serio:
personalmente sono per un utilizzo di ricerche statistiche e quantitative, ma soprattutto di focus group e analisi qualitative; noi stessi comunicatori spesso facciamo uso di sostanze stupefacenti di cui la sondaggina è la più pericolosa.
Utilizzare solo a fini di consenso rilevazioni, interviste e sondaggi non ci fa bene. Magari eccita un po' all'inizio, ma poi arriva inesorabile il down...

1 commento:

  1. Analisi & interventi a go-go su Ferpi.it:

    Ricerca sociale1 / Ri-evoluzioni...

    Simonetta Blasi raccoglie la sfida lanciata la settimana scorsa da Toni Muzi Falconi riflettendo su...

    La fruizione dei ‘testi mediali' – qui intesi come qualsiasi racconto rappresentativo di se' che qualsiasi soggetto può mettere in piedi attraverso la molteplicità degli strumenti comunicativi - non è passiva, ma attiva. L'emittente deve poter serenamente accettare, in rapporto al ricevente, che 1 + 1 non fa 2, ma 3 (un di più che non necessariamente significa meglio, ma significa ‘altro' rispetto a ciò che comunemente ci si aspetterebbe), vale nelle relazioni interpersonali come in quelle tra imprese, enti etc, dal momento che poi sempre questi rapporti si traducono in una relazione tra persone (addetti ai lavori, stakeholder). Si può delineare un obiettivo da perseguire, avendo però ben chiara l'idea che l'obiettivo non solo non è garantito dall'investimento, ma è inevitabilmente destinato a trasformarsi attraverso gli scambi che intercorranno tra i diversi soggetti partecipanti al ‘piano'.

    E qui è in gioco il concetto stesso di pianificazione che non può più essere evidentemente blindata o granitica (e messa in ‘budget') ma deve potersi evolvere in un raccordo costante e continuato con quell'analisi interdisciplinare e quel complesso di attività di monitoraggio di cui Toni sapientemente ci parla. Auspicabilmente evitando le distorsioni pre-confezionate di ricerche mirate solo, in ultima istanza, a preservare incarichi e poltrone a discapito dell'unica opportunità intelligente: un quadro realistico sul quale poter fare riflessioni concrete. E' qui che si consuma lo ‘scollamento' dalla realtà, una forbice che si è allargata a dismisura e che ha completamente fatto saltare il patto implicito di rappresentatività che le persone (in era pre-global e pre-internet) hanno sempre delegato alle istituzioni, ai media, alle rappresentanze politiche e sindacali. La gente oggi si rappresenta da sola anche in quella varietà identitaria che Maffesolì accarezza quando parla di tribalismo e nomadismo affettivo. Perché ha maturato consapevolezza e strumenti più di quanto siamo disposti a concederle e tende a ‘svicolare' dal sistema. Anche se il cammino verso una partecipazione più ampia è ancora lungo e manca la capacità di darsi una ‘struttura', poiché laddove questa subentri inevitabilmente entrerebbero in gioco i capitali e chi vi sta dietro.

    Non abbiamo più grandi punti di riferimento, come giustamente ci ha fatto notare Muzi Falconi, allora cosa rimane del nostro lavoro? Forse la capacità di mettersi in gioco, il coraggio di esporsi e, senza paura, rimettersi a studiare, stare tra la gente, abbracciare la complessità dei contesti e coglierne i pattern più significativi in un processo di formazione e sperimentazione permanente.

    Intanto mi piace pensare che l'etichetta dei comunicatori lasci spazio a quella dei dialogatori. Un po' come spogliarsi di tutta quella terminologia bellica tanto cara al business. Apprezzo e condivido l'idea di uno spazio di relazione che rieccheggia "l'economia delle esperienze" di Pine e Gilmore. E qui mi ricollego alla 'monetizzazione' dei risultati. Rimarrà comunque sempre più difficile comprendere pienamente (e quindi monitorare precisamente) come viene a modificarsi la percezione presso i molteplici e variegati influenti e portatori di interesse in questo scenario di complessità. Anche perchè i tempi e i costi di un lavoro di qualità (ricerche longitudinali, analisi del contenuto) sono impegnativi e l'ansia di verificare il rapporto costi/benefici da parte di chi sta sul mercato è sempre più elevata.

    Capisco che sia uno strumento di grande evidenza, ma alla luce di quanto già detto non credo che la 'copertura stampa' rappresenti più un indicatore di indiscussa eccellenza e affidabilità come lo è stato in passato e questo di nuovo riflettendo sull'impatto che i social media stanno dando alla generazione - o meno - del consenso. Non voglio fare politica, ma l'esito di queste elezioni la dice lunga in tal senso.

    Complessità e velocità inevitabilmente fanno rimanere indietro, forse bisogna accettare questo fattore e muoversi su una ‘vision' più ampia, meno ‘costretta' dalle quotazioni in borsa. Certo, la tentazione di stare al passo copiando modelli made in Usa è forte. Così facendo però si dimentica che l'Italia è un altro paese. Il confronto internazionale è necessario e stimolante, ma le radici culturali sono quel tessuto sul quale si tesse ogni giorno quel dialogo sul quale penso vadano fatte ancora molte riflessioni.

    Simonetta Blasi

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